Si riparla di tanto in tanto delle vicende dell’annessionismo e viene fatto di domandarsi: cosa sarebbe accaduto se la Valle d’Aosta fosse diventata francese?
Federico Chabod, per l’uso dei secessionisti in generale e di Ernesto Page in particolare, con un discorso volutamente terra a terra, elencò in un suo memoriale tutta una serie di motivi pratici che lo facevano indurre al più nero pessimismo.
La relazione della famosa missione Fassò, da parte sua, avvertì che in caso di annessione alla Francia sarebbe subito sorto un irredentismo da parte della popolazione di lingua italiana residente in Valle.
Già una ventina di anni fa, in uno scambio privato di opinioni avuto con il massimo esponente dei separatisti del Jura, Roland Béguelin, ed un uomo politico valdostano, ora assente, che con indubbio coraggio proclamava di essere ancora di sentimenti annessionistici, ebbi ad obiettare che, se fosse diventata francese, la Valle d’Aosta… non sarebbe più stata una minoranza.
Non solo il centralismo della Grande Nation l’avrebbe fagocitata, ma come si sarebbero potuti leggere ancora i contorni della personalità collettiva del popolo valdostano? Forse, l’unico mezzo sarebbe stato quello di delinearne i tratti assumendo come capisaldi gli italofoni!
Sicuramente, la condizione di minoranza ha quale presupposto per la sua esistenza quella di trovarsi attorniata, circondata o, purtroppo, soffocata da una forza più grande: la Valle d’Aosta è minoranza per il fatto di costituire un’entità etnico-linguistica entro i confini della più grande comunità italiana.
Fosse diventata un dipartimento francese, con il cavolo che ci distingueremmo ancora dagli altri sudditi di Mitterrand.
Tra l’altro, il centralismo francese fa sul serio, non come quello della Penisola che, come tante altre cose, è pur sempre… all’italiana.
Condizione scomoda quella di una minoranza.
Guardata con sospetto, considerata un’anomalia, spesso oggetto di disprezzo, di ostilità quando non di aperta persecuzione.
Gli esempi, lontani e recenti, sono infiniti.
Tutti li hanno chiaramente in mente, anche se sarebbe producente che ognuno di noi si ricordasse non solo di quelli che sono più vicini al proprio colore politico preferito, ma anche dei diritti degli altri.
A volte, il “gioco” avviene a parti invertite, ed è allora una minoranza a perseguitare la maggioranza: è il caso, in questi giorni ancora dolorosissimo, dell’apartheid imposto alle popolazioni indigene del Sud Africa.
Quando è un popolo ben delimitato storicamente, etnicamente, linguisticamente o geograficamente a costituire una minoranza, esso lotta per emanciparsi, per conquistare la propria indipendenza, per affermare la propria nazionalità.
E le persone che appartengono ad altri popoli minoritari sono quelle maggiormente in grado di capire quanto dura e dolorosa sia tale situazione.
Lo capì, per esempio, Émile Chanoux, dimostrandolo nella tesi di laurea nella quale si occupò dei diritti della minoranza dei Sudeti.
Parimenti, noi valdostani non dovremmo avere difficoltà a capire le motivazioni profonde del Risorgimento italiano.
Il torto dell’Italia nei nostri confronti è iniziato solo quando, dopo aver affermato la propria nazionalità, ha voluto uniformare tutte le componenti etniche al suo interno.
(Il concetto di nazionalità non è una questione di “formato”, di genere: l’Italia è vasta, la Valle d’Aosta no perché è troppo piccola).
Gli Arabi dovrebbero avere comprensione per Israele, e gli israeliani tenere conto dei diritti dei Palestinesi.
E quanto agli imperialismi, di marca capitalistica o marxista che siano…
Esistono anche persone che costituiscono una minoranza perché differiscono per colore della pelle, sentimenti religiosi, fede politica, abitudini di vita, comportamentali o altro dagli individui della comunità nella quale si trovano a vivere.
È questo il vasto campo che tanti vorrebbero sommergere, dei cosiddetti marginali, di fatto emarginati, che tutti conosciamo, almeno per sentito dire (neri, caffelatte, handicappati, spiantati, eretici, disoccupati, arrabbiati, stralunati, carcerati), cui si aggiungono, con un tocco di modernità, drogati, omosessuali, lesbiche, ammalati di AIDS, ecc., per non dire dell’altra metà della mela, le donne, da secoli discriminate.
Tra le tante minoranze, spesso le cronache si occupano di quella delle persone che hanno incertezze o dubbi o aperto rifiuto, sul piano fisiologico o psicologico, del genere che è stato loro attribuito al momento della nascita.
È ben vero che, nei loro riguardi, la tolleranza ha fatto un buon cammino in questi ultimi anni.
L’Italia, tra l’altro, in questa materia non è rimasta indietro: la legge 164 del 1982 sul cambiamento di sesso è molto avanzata e civilissima, come ha recentemente sottolineato una sentenza della Corte Costituzionale.
Dove si vuole arrivare con questo accenno, quale il riferimento con la Valle d’Aosta?
Si tratta del caso di una persona che vive in questa Regione, che non per puro divertimento, in questi momenti si sta chiedendo, senza capire se ancora ha trovato una risposta sicura, pur sentendosi fatalmente avviata in una certa direzione: chi sono? da dove vengo? dove sto andando?
Era il caso di parlarne qui, pur se si tratterebbe di una cosa strettamente privata.
Dopo averci pensato a lungo, chi scrive ha infine deciso che farebbe torto alla franchezza che ha sempre avuto, anche brutalmente a volte, nei riguardi del prossimo, se non ne accennasse, per una volta, la prima e l’ultima, pubblicamente.
Anche per dimostrare, a sé prima che agli altri, che il coraggio chi ce l’ha lo deve dimostrare in ogni occasione, e non solo quando vi trova il proprio tornaconto.
Si tratta di questo: chi scrive ha da tempo dubbi sulla propria identità di genere e, come qualcuno avrà intuito, visto o vedrà, ha assunto aspetti esteriori conformi alla propria condizione psicologica minoritaria.
Con molto rammarico, se qualcuno, dando talvolta ragione a quanto da tempo vado scrivendo su queste colonne, avrà il sentimento di essere stato a lungo indotto in inganno, ho la speranza che ciò possa servire.
Temo che certe ottime persone, a cui “l’abito non fa il monaco”, stimeranno che io abbia perso ogni credibilità (a qualche politico preso di mira in passato farà anche comodo farlo credere in giro).
Per parte mia, ho la coscienza di non aver perso improvvisamente i lumi, e la sicurezza che un nuovo aspetto esteriore (tra l’altro coltivato da anni in privato, di nascosto, con la paura frustrante del qu’en dira-t-on [ndr. “che cosa se ne dirà?]) non abbia ottuso le mie capacità critiche, né spuntato il pennino della mia stilografica.
Già ho avuto la solidarietà di alcuni amici, quella preziosa (e, lo confesso, anche insperata) dell’editore di questo giornale, al quale voglio dire qui tutta la mia gratitudine.
Saranno i lettori a decidere se il Monitore Valdostano dovrà avere una nuova… collaboratrice dalla “penna velenifera”.