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Uccisa, non morta

Molte testate italiane hanno scritto che Rebecca Cheptegei, maratoneta ugandese, è morta. No, Rebecca Cheptegei è stata uccisa. Brutalmente. Massacrata dal compagno; bruciata viva, con una tanica di benzina. Da un uomo che ha preso anche a calci la figlia di lei, che cercava di proteggerla, e ha aggredito con un machete la sorella, dopo essersi nascosto in un pollaio e aver atteso che tornassero dalla chiesa. Rebecca Cheptegei è stata ammazzata: è un femminicidio.

E se la notorietà dell’atleta ha fatto in modo che la notizia rimbalzasse in ogni angolo di globo, sono decine le donne che vengono uccise dagli uomini che troppo spesso vengono giustificati, anche subdolamente, con il “raptus”. No, questa è violenza strutturale, è patriarcato feroce, è cultura del possesso e dell’abuso che in molti luoghi e contesti viene giustificata, minimizzata. E che nulla ha a che fare con la “cultura” di origine: perché, drammaticamente, il patriarcato non conosce confini e limiti culturali.

Rebecca Cheptegei è stata ammazzata con una crudeltà pianificata, senza pietà. Rebecca Cheptegei è solo una delle vittime della violenza machista. Ogni genere di violenza causata dal genere, dall’orientamento sessuale, dall’identità di genere, ha come origine e matrice la cultura del possesso che è la pietra angolare del patriarcato. Non è una parola vuota, non è un’invenzione della cultura woke: il patriarcato è violenza, è abuso, è ferocia. Tutto quello che ha dato fuoco a Rebecca Cheptegei e che l’ha ammazzata.

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